Esce “Senza Storia” di Gaetano Nicosia, ecco la nostra intervista

In occasione dell’uscita di “Senza Storia” di Gaetano Nicosia che, in ordine cronologico, rappresenta l’ultima opera punk rock del panorama musicale italiano, abbiamo incontrato l’artista per una lunga chiacchierata. Ecco cosa ci ha detto:

– Ciao Gaetano benvenuto su We Music, è uscito recentemente “Senza Storia” produzione di Paolo Rebellato, sostenuto mediaticamente da SONYCA e pubblicato dopo una campagna di crowdfunding. Raccontaci questo percorso, dalla gestazione fino al rilascio e all’attuale promozione. Quali sensazioni? Quali difficoltà? Quali sensazioni?

Devo dire che è stata e continua ad essere un’avventura meravigliosa in un mondo che mi vede come neofita. Questo progetto ha preso forma 10 anni fa e sinceramente non avrei mai pensato di arrivare a produrre un disco, anzi un concept album. È iniziato tutto quasi per gioco e sono stato costretto a seguirne passo passo l’evoluzione. Questo è il sintomo che il progetto ha una sua forza autonoma, un’energia che in qualche modo trascende anche da chi gli dato vita.

“Senza Storia” è nato da alcuni giri di chitarra che poi sono diventati brani, passati attraverso le band che via via mi hanno accompagnato. Sono cambiati i musicisti ma i pezzi hanno trovato un loro percorso dove ognuno ci ha messo del suo. Con la mia seconda band ho iniziato a lavorare sui testi. Ero nel mezzo di una mia crescita personale e a quel punto ho compreso di essere in grado di fare canzoni, con semplicità. È stato un processo di evoluzione collettiva, alla fine del quale mi sono trovato fra le mani qualcosa di valido. Un messaggio musicale composto anno dopo anno.

Il crowdfunding, poi, è stato esaltante, mi ha fatto conoscere tante persone, mi ha messo in imbarazzo perché ho dovuto chiedere sostegno alla gente, ma è anche stato un importante banco di prova, e ho ricevuto tanti apprezzamenti. Chi mi ha supportato lo ha fatto spontaneamente, qualcuno per amicizia. Li ringrazio tutti, così come ringrazio Martino e Francesca che mi hanno aiutato ad incidere le tracce.

Ad Agosto 2019 ho affrontato una maratona di raccolta fondi che mi ha portato a chiudere la campagna con tanti giorni di anticipo, avendo raggiunto l’obiettivo prima del tempo.

Mettermi alla prova ha scatenato alte dosi di adrenalina, perché vedere cosa pensano gli altri della tua musica è emozionante come un salto nel vuoto.

– “Senza Storia” è un’opera prettamente PUNK, ascoltando l’EP i riferimenti sono chiari: Sex Pistols, Damned, Clash, Decibel (per quanto riguarda l’Italia)… Perché proprio il Punk?

Perché è quello che ho dentro, è quello che risuona quando imbraccio la chitarra.

Del punk mi affascina il sound scarno e martellante, la sua energia, la capacità di rompere gli schemi anche compositivi.

Le strutture delle canzoni punk sono anomale, non rispondono al classico schema strofa ritornello strofa, spesso sono esplosioni al di sotto del minuto. Insomma il punk è nato per stressare tutto, per metterci in discussione e spingere oltre i limiti.

Il contesto rigetta il punk, o almeno le sue manifestazioni più estreme di protesta, e finché il contesto reagisce così significa che il punk sta facendo bene.

Nel momento in cui il contesto non rigetterà più le istanze oltre il limite avremo chiuso!

Possiamo dire lo stesso anche del rock. Perché il rock è musica di protesta, di rivendicazione… però il rock può esistere senza la “rottura degli schemi”, il punk no. Se non rompe gli schemi non è più punk.

Il punk è l’ala oltranzista del rock.

In quest’ottica il genere punk ha anche dei grossi limiti: confinare lo stile in questa dimensione rischia di portarti dritto all’autoreferenzialità musicale.

Paradossalmente rischi di autocitarti e non è mai piacevole. C’è sempre il rischio di partire da un punto per ritrovarti dalla parte opposta, la rottura come strada verso l’omologazione. Penso che nel punk più che in altri generi questo possa accadere. Anche per la fragilità dei pilastri su cui il genere si regge. Allora serve sconfinare, contaminare senza passare del tutto la barricata. Puoi fare punk reggae senza diventare totalmente reggae, punk hardcore senza diventare solo hardcore. Il punk è un esercizio di equilibrio continuo.

– Come ci stavi dicendo il punk è nato come movimento di rottura. Mentre il rock stava viaggiando alla grande, vivendo il suo periodo di massimo splendore, alla fine degli anni ’70 esplode come una bomba un genere nuovo… Tra capelli a spazzola e creste colorate, irrompe sulle scene il ritmo asciutto e martellante di protesta del PUNK! Cosa ne pensi?

Penso ai Decibel che da band punk sono passati alla storia per le camicie bianche e la cravatta nera, anche se quell’outfit, come si usa dire adesso, appartiene più alla fase new wave della band.

Contessa, per Sanremo, è stato un brano che ha rotto davvero gli schemi, anche se la produzione punk dei Decibel rimane a mio avviso quella precedente. Però vale quello che dicevo prima: hanno fatto un percorso verso la contaminazione ed in Contessa c’è molto punk, a mio parere.

Certo che il punk degli anni settanta si identifica con un’energia pazzesca. Parlare di creste colorate e capelli a spazzola è forse limitativo. Paradossalmente adesso essere punk potrebbe significare rispettare le regole. In questi giorni in cui stiamo vivendo un’emergenza nazionale essere punk è urlare la propria rabbia nei confronti di coloro che non rispettano le prescrizioni mettendo a repentaglio la vita dei nostri anziani, dei nostri nonni, della nostra memoria collettiva.

Essere punk per me significa avere la consapevolezza di rompere con quello che hai intorno.

Negli anni ’70 essere punk significava rompere i cliché, le regole del tempo, il modo di vivere dei genitori. Ma dentro il punk c’era e c’è anche tanta alienazione, l’incapacità di reagire con senso compiuto al mondo che ti circonda, tipico del disagio adolescenziale prima e giovanile poi. Forse per questo è strano vedere dei punk di 50 anni. Ma dipende da come lo fai, da come rappresenti il punk.

Se lo scimmiotti allora rischi di diventare la caricatura del punk, se ne cogli lo spirito allora puoi salvare te stesso e la stessa musica punk dal destino da riserva indiana. E qui torniamo alla contaminazione, all’essenza, allo spirito del punk come modalità di rottura. Sarebbe senza senso pensare ad un genere di rottura come qualche cosa che rimane sempre uguale a se stesso, relegato nel recinto di una sola modalità espressiva. Poi il punk è anche semplicità, immediatezza, tecnica musicale essenziale, chitarre scarne, svuotamento martellante.

– Pochi lo sanno ma proprio con il PUNK nasce la prima forma di autoproduzione musicale, in contrapposizione a quella mainstream. Che differenze trovi o ritieni ci possano essere tra quel periodo storico e l’attuale panorama “alternativo” musicale italiano? Come è stato per te doverti autoprodurre?

Parto dalla mia esperienza di autoproduzione, che come ho raccontato prima è stata entusiasmante. In generale, da quello che sento il mondo musicale è cambiato, moltissimo. L’autoproduzione adesso è diventata forse l’unica strada mentre prima era una delle strade.

Se l’autoproduzione diventa l’unica strada mi pare ovvio che la rottura come approccio sia l’unica lettura possibile, quindi paradossalmente, ora più che mai ci sono le condizioni per lo sviluppo di una innovata coscienza punk.

Questa “forte selezione all’ingresso” determina una necessità di caricare le tonalità della produzione. O ti caratterizzi o non susciti interesse.

È vero però che da noi non c’è tanto punk in giro, soprattutto in Italia, mentre magari in UK, patria di questo genere, il filone punk è molto vivo e si sperimenta ancora tanto. Da noi il sound punk fa più fatica. Le nostre corde in tema di denuncia e rottura hanno natura più intimista, riflessiva quando non di denuncia politica.

Il cantautorato da noi rappresenta il bacino che si è occupato e preoccupato di raccogliere la protesta, dandogli una forma più intellettuale, raffinata. In UK permane sempre quella vena di disperazione senza via d’uscita che da quelle tonalità e sfumature particolari, introvabili altrove, dà vita a questo filone.

Secondo me la strada del punk italiano potrebbe essere quella di tentare di partire dalla canzone d’autore. Jannacci a suo modo, per me, è molto punk. Usassimo chitarre distorte sui pezzi e sulla voce di Enzo, sulle sue ritmiche, sulle sue strutture, avremmo prodotto del grande punk in salsa italiana.

Se gli autori del cantautorato italiano un giorno dovessero decidere di sperimentarsi in modalità punk, penso che la musica italiana ne avrebbe una grande scossa.

Punk rock dovrebbe significare libertà come disse Kurt Cobain nel 1991.

– Ritieni esista attualmente qualche artista che si possa definire di rottura, e dunque “PUNK”?

In questo momento domina il genere trap, si fa fatica ad ascoltare qualche cosa che non sia trap. Ci sono anche cose molto valide, sia chiaro. Oppure l’Indie. Ecco oscilliamo fra queste due direttive.

Per me rompere gli schemi vuol dire non fare trap o indie, e per quanto mi riguarda apprezzo alcune band punk inglesi come i Suburban Homes, i Buried Beneath, le Woolf, i Low Wife ed i Kaleidoscope, solo per citarne alcuni.

Queste band si muovono un contesto ben diverso, ancora intriso di questa musica, quindi non so se si possa definirle band di rottura. Sicuramente siamo di fronte a interpretazioni sperimentali del punk.

Per fortuna oggi abbiamo internet e possiamo accedere facilmente a realtà lontane e la contaminazione è più facile. Ma il punk va ricercato metodicamente perché è disgregato, minoritario, quasi osteggiato. Non è facile ricostruire una identità punk degli ultimi 10/20 anni, perché fatta, come detto, soprattutto di autoproduzione, molto lontana dalla corrente tranquilla del fiume musicale che ci attraversa quotidianamente. Però evidentemente l’anima punk resiste, resiste perché è un modo di essere che se ti appartiene non puoi sopire.

In Italia parto da “Tabula Rasa Elettrificata” dei CSI, album di valore assoluto a mio parere, forse il migliore degli ultimi anni, anche se parliamo del 1997. Non ricordo attualmente altri album così impattanti e determinanti. C’è una produzione che continua nonostante i tempi difficili, nonostante i locali che fanno musica dal vivo siano sempre meno, e le cantine e i centri sociali sempre più esorcizzati.

In un contesto simile, in cui chi rompe gli schemi è sempre visto male di anno in anno, fare cultura e movimento punk è molto difficile.

Tanti rivoli interessanti che potrebbero preparare un fiume in piena per ribaltare questi anni di opprimente conformismo, non solo musicale: Ruggine, Giorgio Canali, Storm[O], Iena, Tuono e molte band non più in vita che magari hanno prodotto cose interessanti come i To The Ansaphone, mix punk psichedelico, le Allun completamente dissonanti alla Stockhausen. Insomma di roba punk ce n’è, molta di più di quanto si pensi. Aggiungo un’ultima nota, per fare punk in Italia, ma è una mia convinzione, devi cimentarti in italiano.

 

– Raccontaci di Memo Sami il protagonista del tuo album, e dicci che seguito avrà “Senza Storia”?!…

Memo Sami è chi non sopporta quello che gli sta intorno, Memo Sami è drammaticamente punk nel suo non essere in grado di sostenere la frustrazione.

Memo Sami dovrebbe abitare in ognuno di noi per farci sbagliare, affondare e disperare. Senza Memo Sami nella nostra coscienza non abbiamo speranza di rompere con tutto ciò che ci sta intorno, non abbiamo possibilità di avere un altro punto di vista. Memo Sami soffre perché sua madre lo abbandona. Soffre prima perché vive nella violenza e vede la madre piangere, soffre quando la madre va via con un altro uomo, lasciandolo solo con il padre.

Memo Sami è allergico alle scelte perché sua madre non ha scelto lui. Ma arriva il momento in cui una scelta la fa, disperata ed ovviamente sbagliata. Ma è un errore che lo salva, che gli permette di risalire dal buio in cui era stato cacciato e in cui si era rifugiato.

“Senza Storia” prevede un secondo cd ma al momento voglio staccarmi da Memo Sami che mi ha impegnato per tanti anni. E un punk non può programmare a lungo termine.

Confesso che al momento non riesco ad immaginare il seguito della storia di Memo. Magari finisce bene, magari finisce male, magari non finirà mai…