Un esordio che non poteva essere più interessante quello di FLWR. Un progetto con un concept chiaro, che punta alla qualità miscelando generi che derivano da influenze diverse e conoscenza musicale.
Giovanissimo e talentuoso, Alessandro Cuomo (questo il vero nome di FLWR) propone un urban di stampo romantico e patinato sospeso tra rap, trap e canzone d’autore.
“Stare” è il suo primo album e raccoglie l’ultimo anno e mezzo della sua vita, trascorso tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ogni traccia racconta un’esperienza particolare: anche se ciascuna è diversa dalle altre, ognuna di esse, con il titolo di un colore, trasmette in maniera evocativa un’emozione differente.
“Stare” nasce da mix di suoni diversi concepiti in primis da FLWR (cantante e produttore dei suoi pezzi). Ciò che si nota sin da subito è il sound pop delle linee vocali e l’aggressività hip pop/trap delle strumentali dei pezzi. Ma dentro alle tracce ci sono anche sonorità R&C, atmosfere elettroniche e un pizzico di indie.
A pochi giorni dalla release, siamo riusciti a fare due chiacchiere con lui!
Ciao Alessandro! Come sono state queste prime settimane con il tuo disco fuori?
Guarda, io sono molto soddisfatto! Ho avuto un po’ di ansia perché purtroppo non si possono promuovere granché le uscite in questo periodo, però sono molto soddisfatto.
Mi ha colpito la scelta di adottare un concept chiaro già al tuo esordio. Purtroppo è un po’ atipico nel panorama contemporaneo, dove generalmente gli emergenti vengono spinti a forza di singoli che si spera vadano forte, ma senza una visione chiara dietro. Qua l’ho trovata. Cosa volevi trasmettere con i colori che compongono il tuo album?
L’idea di utilizzare i colori per nominare le tracce dell’album è stata abbastanza intuitiva e mi ha permesso di dare compattezza al progetto e una linea di pensiero comune ai pezzi.
Nasce più dalla musica che dai testi. Quando inizio a comporre la canzone come produttore, mi lascio un po’ suggestionare e attraverso la composizione e l’ascolto riesco a vedere nella mia testa dei colori, attraverso i quali posso trasmettere un momento della mia vita.
Quindi ho deciso di trasformare questa cosa nel mio concept. È semplice, ma soprattutto è un modo per essere del tutto trasparente con me stesso.
È anche interessante che tu sia produttore delle tue canzoni e che quindi abbia il controllo del tuo processo artistico a 360 gradi. Credo sia un punto di forza. Come nascono i tuoi brani? Da cosa parti?
Solitamente parto dalla chitarra: mi metto a suonare giri di accordi classici e improvviso qualche linea vocale, fino a che non trovo l’atmosfera che sto cercando.
Dopodiché mi sposto sulla produzione, che è la parte più spontanea, in cui seguo solo l’istinto e trasformo l’idea iniziale. Oggi alla produzione puoi fare di tutto, quindi aggiungo strumenti, lascio un po’ andare e alla fine arrivo a una base più o meno strutturata.
A quel punto ho le linee vocali e scrivo il testo, che di solito è l’ultima cosa.
La tua musica è talmente eterogenea che è difficile darle un’etichetta, e forse è anche bello così. Tu a cosa ti ispiri? Quali sono i tuoi punti di riferimento?
Sì, è vero. Non ho un genere definito, ma credo che questo valga un po’ per tutta la musica di adesso.
Posso dire che The 1975 è la band che mi ha aperto gli occhi, a mio parere la prima band veramente contemporanea. Prima ascoltavo rock, metal… Poi ho scoperto loro, che sono proprio “flessibili”: partono da un’idea, la trasformano e vanno a finire da qualsiasi parte vogliano. Quindi loro sicuramente mi hanno super influenzato!
Ma mi ascolto pure l’onda di adesso, un po’ più trap. Su tutti Post Malone: quando è uscito “Beerbongs & Bentleys”, due o tre anni fa, sono stato molto colpito come produttore. Tutte le canzoni sono diverse, ma fatte nello stesso modo, anche semplicemente. Era abbastanza facile provare a rifarle come produttore, quindi il mio metodo l’ho preso anche da lì.
Volendoti proiettare all’interno del panorama italiano, ascoltandoti non ho potuto non trovare somiglianze con artisti come Tauro Boys e Psicologi. Ti ci ritrovi, a livello di sonorità, mood e temi trattati?
Questo è molto interessante, perché la scena italiana non l’ho troppo seguita. Ho sviluppato le mie idee e il mio modo di fare musica senza osservarla. Nonostante ciò, quando avevo già il mio suono abbastanza definito, un annetto fa, ho scoperto i Tauro Boys, e mi sono reso conto che loro stavano facendo una cosa abbastanza simile.
Non tanto a livello di contenuti – da quel punto di vista non riesco a trovare un altro artista simile a me – però a livello di sound assolutamente sì. I Tauro mi sono piaciuti da subito, forse sono anche stato influenzato. Invece gli Psicologi li ho scoperti da poco.
Però direi che questa ondata un po’ più emotiva sia molto in voga al momento, ed è molto bello!
Questo “sottogenere” va fortissimo soprattutto a Roma. Forse è partito da Carl Brave x Franco 126 per poi evolversi negli anni. Pensi che sia diventata una sonorità distintiva della capitale rispetto alle altre città italiane? Come mai va così forte lì?
Non ci ho mai pensato approfonditamente. Sicuramente è vero che da qualche anno Roma ha questa identità. E attraverso la musica si è data un’identità più forte anche alla vita romana dei ragazzi: ci sono riferimenti a tanti luoghi e a tanti idoli comuni. Quindi io stesso mi sono riconosciuto molto in certe canzoni. Mi sento connesso a tanti altri ragazzi che stanno in città e che hanno vissuto esperienze simili alle mie.
E quindi sicuramente questa scena mi ha influenzato. Per esempio, in “Arancione” (quarta traccia dell’album di FLWR, ndr), io e Siboh ci ritroviamo proprio a parlare di Roma!
Le tue produzioni non sono scontate, si sente che hai studiato la musica! Punti alla qualità, alla varietà, alla ricercatezza musicale… E lo fai all’interno di un genere a cui spesso non viene attribuito valore da questo punto di vista. Pensi che possa essere questa la chiave per emergere?
Avendo il totale controllo della traccia riesco ad avere una visione mia dall’inizio. Poi io ho studiato tanto la musica, dai 12 ai 20 anni più o meno: non sono un jazzista, ma ne capisco abbastanza.
Detto questo, è anche bello secondo me riuscire a tornare su sonorità abbastanza semplici. E forse le canzoni più belle sono proprio quelle! Però è molto difficile evitare la banalità oggi, perché fare una traccia è diventato molto più facile: se ne sentono sempre di più, ma al tempo stesso sono tutte un po’ più simili. Perciò mi piace anche fare belle tracce strutturate.
Quindi sì, spero che emerga la qualità.
Il focus dei tuoi brani sono i sentimenti, la maggior parte delle volte oscuri, difficili da affrontare. Ho notato malinconia, racconti su promesse non mantenute e bugie, desiderio di fuga… Quanto metti di te stesso dentro i tuoi brani?
I testi per me sono sempre stati la parte più difficile. Non mi è facile esprimermi se non attraverso la musica. Però presto mi sono reso conto che è difficile far arrivare le emozioni senza parlare di me.
Perciò credo sia necessario esporsi. È il prezzo da pagare.
Può essere anche terapeutico questo percorso?
Devo dire che non mi aiuta proprio a superare le cose, ma a comprenderle meglio sì.
In diverse tracce ho sentito la difficoltà di un ragazzo di fronte a una direzione da prendere. Non è facile capirsi, guardarsi dentro per cambiare, per crescere. È un sentimento di confusione che osservo spesso nelle persone della tua generazione, quelle che ora stanno vivendo i loro vent’anni.
Pensi che questo disagio sia una caratteristica distintiva di questi anni o lo hanno provato tutti, anche in passato?
Direi che l’abbiano provato tutte le generazioni, in modo diverso. Tuttavia, noi in particolare conviviamo da quando eravamo piccoli con un mostro che si chiama tecnologia. E il conto da pagare arriva: adesso, dopo vent’anni, ci stiamo rendendo conto che è molto difficile uscirne. Ormai fa totalmente parte della nostra vita.
Poi è anche utile, per carità! Ma crea forti tensioni. Ci vogliamo sempre mostrare nel modo in cui vogliamo apparire e siamo sempre con gli occhi puntati su chi è famoso.
Facciamo fatica a concentrarci sulla nostra vita, perché guardiamo troppo quella degli altri. È un peso, più che altro perché non abbiamo una linea guida del mezzo. È qualcosa che non è già successo in passato, e gli effetti li scopriremo noi stessi, nei prossimi anni.
Quindi secondo me è molto stressante, e a volte basta semplicemente abbassare un po’ il volume. Io è da qualche anno che cerco di limitare il tempo in cui sto lì con il cervello. Nessuno ci obbliga a essere stressati 24 ore su 24.
Sono molto curioso di sentirti live. Cosa ne pensi della possibilità dei live “ridotti e limitati” un po’ confusamente indicata nell’ultimo Decreto? È un’opportunità che proverai a cogliere per portare in giro il tuo nuovo album o sei perplesso a riguardo?
Sono sicuramente perplesso, però non mi sento di criticare, è una situazione troppo particolare per farlo…
Diciamo che il live come ce lo immaginavamo, con l’energia che deriva anche dallo stare schiacciati sotto il palco, non lo potremo avere.
Però non tutto il male viene per nuocere! Forse un determinato tipo di live, un po’ più intimo, un po’ più distanziato, aiuta anche di più l’ascolto. Dipende sicuramente molto dai generi! In ogni caso ci adatteremo.
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