“Un’escursione coraggiosa nelle acque oscure della migrazione di massa”, così il quotidiano The Guardian definisce Lampedusa, testo di Anders Lustgarten, novità assoluta per l’Italia per la regia di Gianpiero Borgia che dirige per l’occasione Donatella Finocchiaro e Fabio Troiano.
Lo spettacolo è in programma al Teatro Eliseo di Roma dal 31 gennaio al 28 febbraio.
Due monologhi, due storie perfettamente intrecciate, quelle di Stefano, un pescatore siciliano ormai impegnato a recuperare i corpi dei profughi annegati in mare (3500 nel solo 2015) e di Denise, una donna immigrata di seconda generazione – qui una marocchino italiana – che riscuote crediti inevasi per una società di prestiti. Condannata per sempre al ruolo di outsider in Europa, sostiene che i marocchini sono “i primi ad essere partiti e gli ultimi tra gli immigrati ad essere considerati”.
La povertà e la disperazione non sono solo lo scenario del racconto: sono causa generatrice del contrasto sociale dei protagonisti, argomento di fuga per entrambi e insieme condizione per il miglioramento del proprio status attraverso lo sciacallaggio della disperazione altrui. Ossessionati dal denaro che manca, dalle opportunità che non ci sono, dalla politica dei favori, l’uomo si scopre inaridito dall’inerzia con cui porta a termine il suo compito di pescatore di cadaveri, un lavoro più redditizio e continuativo a Lampedusa in questo momento, mentre Denise cerca un riscatto studiando e allontanando da sé il mondo da cui appartiene, le case fetide e impersonali degli immigrati. Lungi dall’essere una litania della disperazione, Lampedusa è sorprendentemente un racconto sulla sopravvivenza della speranza. Quasi inconsciamente, entrambi cercano una redenzione. Stefano fa amicizia con un meccanico del Mali che attende con ansia l’arrivo della moglie, Denise scende a patti con un’annosa frattura nel rapporto con la madre malata e lotta per garantirle una pensione di invalidità da parte dell’INPS e trova la compagnia simpatica e inattesa di una portoghese, madre single piena di debiti.
Lustgarten traccia paralleli e intrecci invisibili tra le storie di Stefano e Denise.
Entrambi sono persone che si trovano a trattare con un’umanità al limite.
Gente con cui non si vuole avere a che fare. Affida ai suoi personaggi una identica visione politica: il parere che l’Europa è “fottuta” per non avere saputo prevedere che guerra e miseria avrebbero prodotto una congestione di traffici umani e non aver regolato per tempo con criteri certi questi flussi inarrestabili ma ancora prima, per non aver saputo attuare vere politiche di inclusione degli immigrati e dei richiedenti asilo.
Non nuovo a trattare di temi politici internazionali (si ricordano i suoi testi sulla strage di Roboski in Kurdistan per mano dei Turchi e il racconto dello Zimbabwe del dittatore Mugabe ancora inediti in Italia), l’autore britannico rivolge la sua attenzione a quei flussi migratori che percepiamo sempre più inarrestabili e che saranno il vero problema delle politiche comunitarie del prossimo decennio. L’Europa che avevamo immaginato senza confini, rivendica adesso la geografia politica dei perimetri nazionali; il metissage multietnico proposto dalla mescolanza delle culture viene allontanato in nome del rispetto della propria etnia e delle proprie tradizioni; i muri che pensavamo di avere abbandonato alla memoria della storia, tornano ad erigersi con prepotenza. Su tutto, domina la paura dell’altro e lo spettro degli attentati nel cuore delle nostre città.
Il punto di Lustgarten è che dietro il disastro sistemico della politica e delle nazioni, ci sono fortunatamente ancora le persone, la gentilezza individuale, la sorpresa dei singoli, e nell’equilibrio del gioco degli opposti, ricorda qualcosa di Harold Pinter quando nella sua ultima intervista TV disse: “Io penso che la vita è bella, ma il mondo è un inferno”.
Il personaggio di Stefano cattura tutta la rabbia e il risentimento di un uomo che, anche nei suoi sogni, è ossessionato dalla morte, ma che lotta in qualche modo per non essere sopraffatto dall’abitudine, impara a farci i conti e, infine, è conquistato da un gesto di amicizia. Denise trasmette allo stesso modo l’amarezza di una ferita mai sanata sul contrasto cultura di provenienza/paese di adozione, ma anche la volontà di arrendersi a un atto di amore e carità inaspettato.
In questa piece, Lustgarten non ha spazio per esplorare la questione pratica di come la società europea possa riequilibrare il suo obbligo morale verso i richiedenti asilo con i propri problemi economici e l’incubo delle democrazie ormai al tramonto.
Tuttavia in questo testo coraggioso e audace, affronta il tema serissimo della migrazione di massa portandolo al suo livello di urgenza e dimostrando che – dietro le statistiche orrende di profughi annegati o le notizie allarmistiche sulla stampa circa i benefici riconosciuti quasi immeritatamente ai profughi – giacciono vite di individui che hanno conosciuto ogni tragedia, prima di rivolgersi al mare per provare ad andare via. E ricominciare a sperare.
Anders Lustgarten è il figlio di importanti accademici inglesi: sua madre è la filosofa Donna Dickenson, una dei maggiori studiosi al mondo di etica medica. Ha studiato cinese ad Oxford, prima di trasferirsi a Berkeley in California per lavorare al suo dottorato di ricerca. Dopo aver completato gli studi, ha ideato corsi accademici per i detenuti nel Regno Unito e negli Stati Uniti e ha insegnato dramma dentro le carceri in entrambi i paesi. Lampedusa è il suo primo testo rappresentato in Italia.