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Ganoona: “La mia musica, ponte tra le isole delle mie influenze”

Si possono combinare sonorità black, latin e hip-hop accompagnandole con liriche intense e originali in Italia? Ganoona lo fa, portando qualcosa di unico nella musica italiana. L’abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo ultimo singolo, “Bad Vibes”.

Ganoona è un cantante italo-messicano che vive a Milano. Ormai da anni fa parte della ricca scena di artisti che popolano il panorama culturale del capoluogo lombardo, rinforzando di significato l’appellativo di “capitale della musica” che gli viene associato.

Io e Gabriel (questo il vero nome di Ganoona) ci siamo sentiti nelle calde ore della polemica sui Navigli affollati, l’ennesima emersa in questi due mesi abbondanti di lockdown.

«Ho visto le foto e non si può dire che fossero proprio edificanti – ha commentato – però non mi voglio sbilanciare più di tanto. Oggi si deve puntare il dito contro quelli che sono andati sui Navigli, ma è sempre molto frettoloso decidere chi è il nemico. I media ne hanno individuati tanti in questi mesi, ma ci sono molte altre incongruenze in realtà. Sui social è fin troppo facile, ma non ha senso sbilanciarsi prima di avere chiari i fatti

Una riflessione che non fa una piega, e che in un certo senso riprende anche in “Bad Vibes”, il suo ultimo singolo uscito per Noize Hills Records. Disponibile sulle piattaforme digitali dallo scorso 21 aprile e in rotazione radiofonica dal 24 dello stesso mese, lo potete ascoltare al seguente link:

https://open.spotify.com/album/1kN0mbgw8ksXKszvQQNBJw?si=XJ6QgJ0FQPW5HY4OQY5ofw

Nel brano, Ganoona canta di una realtà in cui la tecnologia ha plasmato in modo irreversibile i rapporti e le abitudini umane, cambiandoli per sempre. Riprendendo le sue parole, «forse, quando viviamo questa sensazione di insicurezza, di alienamento dalla realtà, l’unica oasi sicura è l’abbraccio silenzioso di una persona che ci vuole bene

Ma partiamo dall’inizio, Gabriel. Raccontaci un po’ della tua storia.

Sono nato a Milano da mamma italiana e papà messicano. Fin da piccolo sono stato spesso in Messico – la prima volta addirittura a sei mesi – perché la maggior parte della mia famiglia viveva là.

Questa ambivalenza l’ho sempre vissuta sulla mia pelle, ed è stata molto importante per il mio sviluppo artistico: in casa c’era mia madre che ascoltava il cantautorato italiano, da Dalla a De André, ma anche mio padre che metteva su la musica tradizionale latina, messicana…

Sono sempre stato attratto da tutto ciò. Pensa che la mia prima canzone l’ho scritta e addirittura registrata su cassetta a nove anni, dedicandola a un amico che cambiava città.

Tuttavia, durante l’adolescenza la musica è diventata un sogno apparentemente irraggiungibile: mi sembrava troppo più grande di me. La portavo avanti quasi di nascosto, in cameretta, con quello che è stato il mio primo amore musicale: il rap.

Il mio percorso artistico vero e proprio infatti è iniziato con il teatro. Ho studiato e lavorato per alcuni anni in quel settore, divertendomi un sacco. Ma è il teatro stesso che mi ha aiutato a guardarmi allo specchio davvero: si dice spesso che il teatro insegni a mettere delle maschere, ma in realtà insegna a toglierle. È grazie a lui se ho capito quale fosse la vera fiamma che sentivo dentro.

Ho iniziato questo nuovo percorso buttandomi nel rap, esibendomi dal vivo: alle jam, nei locali, nei centri sociali, dovunque! In quelle occasioni ho conosciuto un dj con cui ho prodotto un EP in lingua spagnola, prodotto da un’etichetta indipendente messicana.

È stato un progetto importante, che siamo anche riusciti a portare in tour in Messico. Questa è stata la mia prima vera esperienza sul campo: destabilizzante perché avvenuta in un paese molto diverso dall’Italia, ma semplicemente bellissima! Così mi sono deciso a voler provare a fare questa cosa di lavoro.

Ho dovuto fare una scelta: trasferirmi in Messico e continuare quello che avevo iniziato o rimettermi a studiare la musica. Volevo capirla, il rap non mi bastava più. Perciò ho deciso di rimanere in Italia, e mi sono laureato in canto e pianoforte d’accompagnamento.

È in questo modo che ho iniziato a sperimentare con la musica suonata e con il canto: ho una voce molto bassa e inizialmente pensavo di non poter cantare. Tuttavia, lo studio mi ha presentato davvero tante opportunità ed è potuto nascere il progetto che sto portando avanti anche ora.

Quanto sono importanti le tue origini messicane per la tua arte? Cosa attingi da lì?

Sono molto importanti, mi arricchiscono. Quello che cerco di creare è una sorta di musica ponte tra le isole delle mie influenze: il mondo black, dal soul al rap; il mondo del cantautorato, quindi della lingua, della parola; e infine il mondo latino.

È vero, effettivamente il risultato a cui conduce la connessione di queste influenze è originale, è tuo. Tra l’altro stai percorrendo questa strada in un paese che solo da qualche anno dà rilevanza alla musica black.

Come si è sviluppata dentro di te la voglia di passare dalla forma del rap a quella della canzone?

È stato totalmente naturale! Questo è un grande vantaggio perché se sentissi la fatica della forzatura nel mio processo creativo, saprei di dovermi fermare: se una cosa non è naturale, risulterà tale anche alle orecchie dell’ascoltatore.

Certe volte però mi rendo conto che questo possa portare a incomprensioni: io sul palco mi muovo ancora da rapper, non posso farci niente! Ma la conseguenza è che spesso qualche giornalista sia spinto a definirmi tale, in modo assolutamente fuorviante. È una semplificazione, paragonabile a quella di definire rapper artisti come Venerus o Frah Quintale. Bisognerebbe andare più a fondo, perché c’è di più!

Hai anche cambiato i tuoi punti di riferimento e i tuoi ascolti in questi anni?

Sì, ovviamente in questo percorso i miei ascolti si sono ampliati tantissimo, soprattutto grazie allo studio. Se ci pensi, la musica che facciamo è figlia di quello che ascoltiamo.

Io ascolto ancora tanto rap, soprattutto se d’oltreoceano, statunitense o latino che sia. Poi ho recuperato anche tutto quello che ascoltavo passivamente in casa, da bambino: mi riferisco a Etta James, Billie Holiday… Artisti che ho integrato anche con l’evoluzione più moderna della black music: per farti un esempio, Nao è un’artista che mi piace molto!

Ancora prima di ascoltare il pezzo, sono stato colpito dalla copertina: mi ha trasmesso tutta l’inquietudine che poi ho riscontrato ascoltando la canzone. Lavori tu stesso sulle grafiche?

Tutto l’aspetto visual del progetto è curato da Lorenzo Chiesa, il punto di riferimento della mia etichetta per i video e le grafiche. Abbiamo una bellissima sinergia e lui riesce sempre a rappresentare perfettamente le mie idee.

A me piace molto lavorare per colori, e infatti finora le mie copertine hanno avuto un colore primario d’impatto come sfondo. È un approccio un po’ minimalista che punta ad associare un colore a un’emozione, e il viola mi sembrava azzeccato per “Bad Vibes”: abbiamo lavorato sulla resa grafica dell’atmosfera stregonesca e dark, mantenendo comunque l’impianto pop del progetto.

In “Bad Vibes” canti: «Lei è bella bella e baila, ma non perché è felice. Se c’è qualcuno che la guarda si accende tipo dinamite». A mio parere è un’immagine che riprende meravigliosamente un sentimento diffusissimo tra i millennials, di incompiutezza, solitudine, narcisismo. Tutto il brano mi sembra incentrato su questo tema.

Quando ho scritto “Bad Vibes” stavo vivendo un periodo in cui mi sentivo parecchio ingabbiato nella routine che mi offrivano il lavoro, i rapporti e la vita sociale. Hai presente quando, tornato a casa, ti rendi conto che non hai parlato veramente con nessuno? Magari ti sei anche divertito, ma non sei meno solo di prima. Stavo provando questo tipo di malessere e avevo bisogno di scriverne, buttandolo fuori…

Mi fa piacere che ti abbia colpito l’immagine che citavi, è una frase chiave per comprendere il pezzo. Pensa che mi è venuta in mente a una festa di laurea: guardandomi intorno, vedevo tante persone che si sforzavano di divertirsi, e ho provato proprio quel sentimento di straniamento… Quell’immagine l’avevo vista con i miei occhi, ed era così forte che ho dovuto metterla nero su bianco.

Molto spesso chi scrive è solo più attento a osservare, non si inventa niente.

Pensi che riusciremo a risolvere questi sentimenti?

Io non sono troppo ottimista… Spero di sbagliarmi, ma per assurdo temo che le prossime generazioni intenderanno proprio i rapporti umani diversamente da come li intendiamo noi. Continueranno sicuramente ad esserci persone che sentiranno il bisogno di prendersi cura di momenti non inquinati dalla tecnologia e dai social, però temo che la maggioranza cambierà il modo di intendere la vita, in particolare quella sociale.

Come è nata l’idea del video, in cui diversi perfomers danzano sulle note di “Bad Vibes”?

Io sono da sempre un appassionato del mondo della danza. Amo la moderna e l’hip-hop, ma mi piacciono molto anche altre discipline che stanno arrivando adesso in Italia, soprattutto grazie a diverse serie TV. Inoltre, frequento abbastanza l’ambiente dei ballerini qui a Milano, e caso vuole che anche la mia ragazza sia una ballerina professionista! Quindi sono molto legato a questo mondo e non vedevo l’ora di coinvolgerlo in un mio progetto.

In Italia non abbiamo l’abitudine a connettere danza e musica. Se avviene, poi, ha uno scopo televisivo, “alla Baby K”. Il rischio cringe è sempre dietro l’angolo… In America è diverso: un’artista come FKA twigs ha un corpo di ballo che fa cose teatrali pazzesche.

Questo mi sembrava il momento giusto per coinvolgere artisti che potessero comunicare il senso della canzone con il corpo, completando a livello esperienziale quello che faccio io con la voce. Il risultato a mio parere è fantastico. Quando ho visto il video la prima volta mi sono proprio emozionato… È un mosaico intimo e collettivo allo stesso tempo!

A Milano fai parte del ricco panorama di artisti che animano i locali della città. Come ti immagini la situazione quando saremo usciti da questa emergenza?

Io temo che ci saranno un po’ di stravolgimenti, dovuti soprattutto agli ostacoli di natura economica che dovremo affrontare. Mi rattrista pensare che qualche locale non riuscirà a riaprire. Tuttavia, non credo che l’Italia potrà mai fare a meno della musica dal vivo, dell’intrattenimento, della cultura.

Inoltre, la storia ci insegna che ogni momento di crisi rappresenta l’occasione perché possa emergere qualcosa di nuovo. Gli eventi traumatici hanno sempre favorito la creatività.

I vari singoli che stai pubblicando andranno a confluire in un progetto più ampio?

Esatto, ed è quasi tutti pronto! Ovviamente per le tempistiche di uscita stiamo valutando anche in base al periodo, perché promuovere un disco intero senza poterlo suonare dal vivo è un po’ ostico. Sicuramente lo pubblicheremo entro la fine dell’anno, ma se le cose dovessero andare in un determinato modo potrebbe mancare anche molto meno…

Quello che posso dirti con certezza è che prima dell’estate uscirà un nuovo singolo, il terzo capitolo della saga iniziata con “Cent’Anni” e proseguita con “Bad Vibes”. Non vedo l’ora di farlo sentire a tutti.

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