L’eclettico Joe Armon-Jones conquista il Monk: ecco la recensione

Difficile, ieri sera, credere di trovarsi al Monk: l’ipotesi che istantaneamente stuzzica la nostra percezione è che all’incrocio di Portonaccio un wormhole ci abbia trasferiti nei sobborghi di Londra.

Questo è l’inevitabile effetto della musica di Joe Armon-Jones, pianista che definire eclettico è riduttivo.

Già membro fondatore degli Ezra Collective, le sue dita hanno lasciato il segno in numerosi progetti, da Pharoahe Monch ad ATA KAK, ed è ormai riconosciuto a pieni meriti fra i maggiori esponenti del movimento jazz londinese. Ieri sera al Monk ha eseguito il suo ultimo lavoro, Turn To Clear View, pubblicato il 20 settembre da Brownswood Rec.

Per niente avido di improvvisazioni, Armon-Jones ci ha stupiti con virtuosismi che spaziavano dalla musica classica a sonorità che potevano tranquillamente ricordare gli Atoms For Peace. Fra le tante, notevole l’esecuzione di Yellow Dandelion: la sensazione è quella di una sensuale lotta fra sassofono e piano, in cui quest’ultimo finisce col cedere alle avances del primo.

Seguito dai talentuosi Asheber, Jehst, Nubya Garcia e Obongjayar, sembra di trovarsi di fronte ad una tribù che danza intorno all’immenso totem dell’espressività musicale, totalmente incurante di quale genere seguirà questo ballo. È infatti incredibile l’alternarsi tra sonorità che potrebbero far da sfondo ad un romanzo di Fitzgerald, passando per l’eredità del reggae e dell’afrobeat,  ad altre in grado di portarci, come suggerisce la copertina del disco, nello spazio siderale. Sia chiaro: non a bordo dello Shuttle o di una capsula Soyuz, bensì su una lussuosa auto d’epoca. Come se il bagaglio culturale musicale dell’uomo venisse spedito sulla luna a bordo di una Cadillac.

Menzione d’onore alla sassofonista Nubya Garcia, che più volte ha evocato il plauso del pubblico con i suoi assoli.

Se vi siete persi Turn To Clear View, affrettatevi a recuperare l’ascolto.

Da accompagnare con un whiskey sour.

 

 

di Jacopo Montanaro