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Manuel Finotti: «Dire la verità, anche quando la voce trema»

Abbiamo intervistato Manuel Finotti per parlare della sua storia, del nuovo capitolo della sua carriera e del suo ultimo singolo, “Forse Dovremmo Parlare”.

Manuel Finotti è un cantautore, autore e polistrumentista. È tante cose, ma riesce a racchiuderle tutte coerentemente all’interno della sua persona. Da venerdì 12 giugno è disponibile in rotazione radiofonica il suo ultimo singolo, “Forse Dovremmo Parlare” (Isola degli Artisti/Virgin Records), uscito il 29 maggio su tutte le piattaforme digitali.

“Forse Dovremmo Parlare” è disponibile su Spotify al seguente link:

https://spoti.fi/371E1AJ

Le cose non dette, a volte, sono quelle che aprono la strada alle più grandi opportunità, eppure verbalizzarle fa paura. “Forse Dovremmo Parlare” è una canzone scritta per tutti i rapporti da salvare, per tutte quelle verità da tirare fuori anche quando sembra troppo tardi.

Con questo nuovo singolo, Manuel Finotti omaggia chi ha il coraggio di abbracciare i propri sentimenti, dando loro voce:

«Ti accorgi di quanto sia importante qualcuno quando ne parli a tutte le persone, con lo stesso entusiasmo con cui da bambino tornavi a casa da una gita e cercavi di far capire ai tuoi genitori quanto fosse stato importante per te quel momento.

È stata questa la fotografia che volevo raccontare nel pezzo, con la speranza che possa aiutare gli altri come lo è stato per me.»

Qualche giorno fa ho chiamato Manuel per parlare di “Forse Dovremmo Parlare” e di quello che vuole trasmettere con la sua musica.

Ormai è più di un mese che il pezzo è fuori. Sei contento?

Moltissimo! La speranza era che tutti si potessero ritrovare dentro quella storia e i feedback positivi ricevuti in tal senso sono una grossa vittoria.

Nel brano parli della necessità di comunicare in modo sincero come antidoto per salvare i rapporti a cui teniamo. È un insegnamento che hai provato sulla tua pelle?

Sì, la canzone è prettamente autobiografica. L’intento, per una volta, era di essere sinceri con sé stessi, senza girarci attorno. Ho cercato di esprimere le cose più semplici che possiamo vivere, i sentimenti.

Mi dicevi che molti si sono immedesimati nella storia che racconti. Pensi che quello comunicativo sia un problema condiviso nelle nuove generazioni, che con i social fanno confusione su cosa significhi davvero comunicare?

Sì, credo che quella di lasciare alla tastiera le cose più pesanti da comunicare sia una comodità a cui ricorriamo un po’ tutti. Questo è un errore però, perché ci fa perdere il contatto con la realtà, e perdendo quello perdiamo anche gran parte della verità che sta nei rapporti.

Penso che i social non potranno mai andare a sostituire le confidenze, gli sfoghi, i confronti che si hanno con le persone a noi care. Quella che viviamo è come se fosse tutta una vita in digitale, ma ogni tanto abbiamo anche bisogno di andare a trovare una foto stampata di quando eravamo piccoli.

«Vorrei che esistesse un modo per dire sempre la verità | Senza avere peli sulla lingua o paura di chi giudica» è l’incipit di “Forse Dovremmo Parlare”. Mi ha colpito molto. Tu soffri molto il giudizio degli altri, che spesso al giorno d’oggi è superficiale e privo di un briciolo di empatia?

La comunicazione a distanza ha provocato anche questo. Ne soffro perché sono una persona restia ad esternare quello che provo, e quando lo faccio è come se avessi il dito puntato. Devo sempre sperare che dall’altra parte ci sia la giusta consapevolezza nell’accogliere le informazioni, i pensieri.

Quella frase era anche un po’ rivolta a me stesso, come a dirmi: «Per una volta fottitene!». È un po’ quello che dovremmo fare tutti ogni tanto: fottercene del giudizio delle persone e andare avanti, come se non ci fosse un domani. Perché certe volte bisogna essere un po’ incoscienti.

Però dai, immagino che tu non abbia tanti haters!

Magari ci sono, ma mi accusano solo di scrivere canzoni sempre troppo romantiche e sdolcinate! (ride, ndr)

Questa ballad ha un caratteristico sound internazionale, che spicca anche grazie al contributo del batterista Ash Soan (che ha collaborato con Adele, Dua Lipa, Sam Smith e molti altri, ndr). Hai fatto una grossa ricerca in questo senso o è venuto naturalmente?

C’è stata una lunga ricerca perché, iniziando a scrivere il pezzo insieme a Jacopo (Jacopo Samuel Federici, coautore del brano, ndr), avevamo l’obiettivo di portare la canzone nel linguaggio del britpop. Il brano era nostalgico al punto giusto perché potesse essere catalogato in quel mondo là!

Non è stato difficile, ma lungo: nessuno dei due è inglese e non avevamo modo di andare ad attingere facilmente da quel mondo là.

“21 Marzo”, il singolo precedente a “Forse Dovremmo Parlare”, invece è un filmato della tua infanzia, una commovente dedica alla tua famiglia, e lo stesso videoclip è quel filmato, fatto delle tue immagini da piccolo. Che cosa volevi trasmettere con quel brano?

Sono partito dalle cose che i figli non riescono a dire ai genitori. Ci sono un sacco di cose che puoi fare nella vita per ringraziarli… ma non basterà mai.

Quindi ho iniziato a raccontare partendo dal mio primo giorno di vita, come a delineare una sorta di carta d’identità. Da lì è partita l’ispirazione, e il link alla storia della mia famiglia è stato naturale, perché effettivamente è da lì che veniamo.

Definirei la tua poetica genuina, spontanea, sincera. Credo sia anche questo a caratterizzare il tuo successo, perché gli ascoltatori possono immedesimarsi facilmente nei tuoi racconti. Quanto lo ritieni importante questo come autore?

Credo che sia alla base, perché se dovessi raccontare una storia che non mi appartiene lo farei con distacco, e poi sarebbe veramente difficile far trovare a chi mi ascolta le chiavi per entrare dentro quella storia.

La cosa bella di chi scrive canzoni – ma anche libri, poesie… – è proprio riuscire a dare un pretesto per entrare dentro la vita di qualcun altro. E la sincerità credo sia l’unico modo.

Secondo te questa caratteristica viene a mancare a chi, con l’avanzare dell’età e del successo, perde il contatto con la realtà?

Ci sono diverse filosofie, perché in realtà molto cantautori, pur avendo finito le proprie storie, hanno vissuto una vita così intensa che si appoggiano a quello che hanno visto e sentito, alle vite degli altri.

A un certo punto credo arrivi un normale distacco dalla realtà, ma semplicemente perché la tua vita cambia! La normalità a mio parere è una sorta di fermento continuo per la creatività, perché se la tua vita è distorta non combacia con quella di chi andrà ad ascoltare, che farà così fatica a rivedersi nelle tue parole.

Dai una grande importanza alle parole che scrivi: le riporti su Instagram, come sottotitoli dei tuoi videoclip… Lo fai per sensibilizzare i tuoi ascoltatori ad ascoltare, e non solo a sentire?

Si, rientra nel contesto di velocità e superficialità della fruizione contemporanea. Quando scrolliamo sui social l’attenzione è bassissima: si ha un secondo di attenzione, quindi io vado dritto al punto e cerco di indirizzare fin da subito il visitatore. È come se dicessi: «Questo post parla di questo; se ti piace ok, se no continua pure a correre!»

Le tue capacità autoriali ti hanno permesso di costruirti una fertile carriera da autore, che ha raggiunto il suo apice con Giordana Angi, con la quale hai portato “Come Mia Madre” al Festival di Sanremo 2020. È un lato della tua carriera che desideri portare avanti o, nel caso in cui il tuo progetto solista dovesse assumere un’importanza ancora maggiore, sei pronto ad abbandonarlo?

Ci ho pensato tantissimo, ma nella mia testa questi due ruoli viaggiano nella stessa direzione, la differenza tra loro è molto sottile per me.

Alla fine io scrivo, e devo solo avere la pazienza di capire che periodo sto vivendo. In certi momenti va più veloce una delle due strade, altre volte l’altra mi attira maggiormente e mi aiuta a rigenerarmi.

E quando capisci in mano a chi andrà il pezzo?

La maggior parte delle volte ho bisogno di tempo per riascoltarmi. Generalmente è solo il giorno dopo aver scritto qualcosa che, riascoltandolo, mi faccio un’idea più chiara di cosa posso tenermi e di cosa invece può essere difeso meglio da un’altra persona. La fase della scrittura è importante, ma finché non termina il momento di entusiasmo cosmico non ho la lucidità per capire dove è meglio direzionare un brano.

Ma se capisco che affidarlo a qualcun altro possa aiutarmi a fare il bene della canzone – che è la cosa più importante – non ha senso che io lo tenga per gelosia.

Volevo andare un po’ indietro negli anni. La tua carriera solista era partita forte: avevi provato a entrare a Sanremo nel 2015 con “Post Scriptum”, canzone che poi è andata piuttosto bene guardando gli streams su Spotify… Cos’è successo in questi anni che ti ha fatto fermare per un po’?

La verità è che, non appena è arrivato il “no” di Sanremo, io mi sono sentito fortunato. Trovandomi in quel contesto, così gigantesco, ho capito che a 18 anni non ero ancora abbastanza lucido da poter capire cosa fosse giusto e cosa no (per quello che riguarda la musica). Sanremo può darti una visibilità estrema, ma se non la sai gestire nel modo giusto ti torna contro, come un boomerang, e può farti male per sempre.

Quindi da quel momento mi sono concentrato sulla mia scrittura, su me stesso e ho lavorato in background su molti aspetti creativi.

Il nuovo capitolo della tua carriera solista è stato lanciato proprio il 21 Marzo, in piena quarantena. Hai pensato di rimandare tutto in attesa di periodi più felici, sotto tutti i punti di vista?

Ci ho un po’ pensato, però il pezzo esisteva già dal 2017 più o meno, il titolo e il suo contenuto combaciavano con il mio compleanno e con quella data… Insomma, quarantena o meno, avevo deciso che “21 Marzo” dovesse essere il punto di partenza del mio nuovo capitolo.

Ti ritieni uno che vive alla giornata o hai tanti obiettivi in testa?

Il girone dell’inferno in cui mi trovo ora credo sia quello che ho sempre desiderato: ho la possibilità di scegliere che cosa essere, che cosa dire e mantengo sempre la lucida percezione di quello che vivo, di quello che faccio quotidianamente.

Quindi non dico che io viva proprio alla giornata, però è bello avere sempre la possibilità di contaminarmi con i ragazzi con cui scrivo, giorno per giorno, creando musica da zero e potendola portare potenzialmente ovunque nel mondo della musica.

Semplicemente credo che serva pazienza, un termine che nel mondo della musica deve essere sempre molto presente. Nella maggior parte dei casi, quando vuoi troppo qualcosa prendi un bel treno… in faccia! Invece, quando lavori piano piano, con la giusta costanza, riesci sempre ad arrivare dove vuoi.

È come se fosse una sorta di obiettivo mentale, inconscio: tutti sappiamo che cosa vogliamo essere, che cosa vogliamo diventare, però se ce lo diciamo esplicitamente la magia svanisce e perde valore. Dobbiamo invece lavorare, con gli occhi aperti e con i piccoli obiettivi bene a fuoco, senza distrarci con aspirazioni a lungo termine. Facciamo, andiamo, e poi vediamo dove parcheggiare!

Mi sembra l’approccio giusto! E quali sono i prossimi metri che intravedi nel tuo cammino?

Abbiamo della nuova musica, che pubblicheremo da settembre! Con “21 Marzo” e “Forse Dovremmo Parlare” abbiamo posto le fondamenta, e ora dobbiamo costruirci sopra delle cose belle, con calma. Con i prossimi singoli capiremo quando e come far uscire un ipotetico album e nuove collaborazioni.

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Marco Paltrinieri: